Violenza sulle donne: ogni passo conta per fermarla
25 novembre:
ogni cambiamento conta contro la violenza sulle donne
Violenza sulle donne: dietro ogni statistica c’è una vita spezzata. Scopri come combattere il femminicidio e il terrorismo di genere.
La violenza di genere
non è solo cronaca
Quando si parla di violenza sulle donne, il pensiero corre immediatamente alla cronaca più nera, alle storie strazianti di vite spezzate per mano di chi, con terribile ironia, professava amore. Sentiamo l’eco di una furia inspiegabile, di un raptus che annulla ogni legame, e in un attimo, la vittima scompare, trasformata in una statistica, in un monito. Ma limitare questa piaga ai soli femminicidi, per quanto essi rappresentino l’apice più tragico e brutale, significa guardare solo la punta dell’iceberg. Significa ignorare che questa violenza non è un’aberrazione sentimentale, un eccesso di passione degenerato, bensì il sintomo di una malattia molto più profonda, radicata nella struttura stessa della nostra società. È un vero e proprio terrorismo di genere, un sistema pervasivo che, giorno dopo giorno, in modi sottili e spaventosi, lavora per mantenere la donna in una posizione di sottomissione e disuguaglianza rispetto all’uomo.
Il terrorismo di genere
nella società patriarcale
Viviamo ancora in una società patriarcale, un modello obsoleto che resiste tenacemente al progresso, manifestando il suo potere in ambiti che a prima vista sembrano neutri o innocui. La violenza di genere non è solo l’aggressione fisica o verbale; è l’assenza, l’omissione, la discriminazione istituzionalizzata. È il costante messaggio che la donna, e con lei tutto ciò che è tradizionalmente “femminile”, vale meno. E questo messaggio viene sussurrato, o urlato, in ogni ambito della vita.
Disuguaglianza nella sanità
e nella ricerca medica
Il terrorismo di genere si annida persino nella sanità, un settore che per sua natura dovrebbe essere un baluardo di equità e cura. L’esempio dell’endometriosi, una malattia cronica che affligge milioni di donne in età fertile, è un caso emblematico di questa disparità. Nonostante l’impatto devastante che questa patologia ha sulla vita, la produttività e il benessere di chi ne soffre, i fondi destinati alla sua ricerca risultano essere irrisori se paragonati a quelli stanziati per altre patologie croniche che colpiscono prevalentemente la popolazione maschile. Questa non è semplice negligenza: è l’espressione di un gender gap sanitario profondamente radicato nella storia della pratica medica.
L’Uomo come “Modello Universale”
Il problema affonda le sue radici in secoli di pratica medica centrata sull’uomo come “modello universale” di riferimento. Storicamente, sia gli studi scientifici che le sperimentazioni cliniche hanno privilegiato l’utilizzo delle cellule maschili, finendo per ignorare o minimizzare sistematicamente le specificità e le differenze biologiche femminili. Questa prospettiva distorta ha portato a una profonda carenza di conoscenza e attenzione verso le condizioni di salute che interessano in modo specifico le donne. Il risultato di tale approccio è un sistema che, purtroppo, non è in grado di rispondere in modo equo ed efficace ai bisogni sanitari di tutta la popolazione.
Il Calvario della Diagnosi Tardiva
La conseguenza più tangibile di questa disparità è il ritardo spaventoso nella diagnosi dell’endometriosi, che in media può arrivare con anni di ritardo. Questa attesa prolungata costringe le donne affette a un vero e proprio calvario fatto di anni di dolore cronico, incomprensione e invalidità progressiva. Non è raro che queste pazienti si sentano dire da professionisti sanitari che la loro sofferenza “è tutto nella loro testa”, sminuendo la gravità dei sintomi. Questa mancanza di studi dedicati, di diagnosi precoci e di cure realmente efficaci per una sofferenza prettamente femminile è, di fatto, una violenza silente ma profondamente distruttiva.
Violenza Istituzionale e Svalutazione
Il mancato riconoscimento e il sottinvestimento cronico nella salute di una parte significativa della popolazione equivalgono a una sua tacita svalutazione. Un’istituzione sanitaria che non riesce a investire in modo proporzionato ed equo nella ricerca e nella cura delle patologie femminili non sta solo commettendo un errore scientifico o organizzativo, ma sta perpetrando una forma di violenza istituzionale. Riconoscere questa dinamica è il primo passo per smantellare un sistema che, per troppo tempo, ha trattato il corpo e la salute delle donne come una variabile secondaria, perpetuando un circolo vizioso di sofferenza e ingiustizia.
Il gender pay gap
e il lavoro invisibile
Anche il mondo del lavoro è un campo minato. La disuguaglianza salariale, il cosiddetto gender pay gap, è la forma più palese di violenza economica: a parità di competenze e mansioni, una donna viene pagata meno. Ma il terrorismo di genere si manifesta anche in modi più subdoli. L’esempio del questionario distribuito nelle fabbriche, solo alle donne, per capire come conciliare la gestione della casa e del lavoro, è un’istantanea perfetta di un pensiero radicato: l’accudimento, il lavoro domestico, la cura dei figli e degli anziani è, per definizione, affare delle donne.
Questo approccio perpetua l’idea che il lavoro retribuito della donna sia secondario rispetto al suo “vero” ruolo, quello di custode del focolare.
Nonostante i criteri ESG che dovrebbero rispettare le aziende, nei consigli di amministrazione o nei ruoli decisionali importanti nell’ambito aziendale ci sono ancora troppe poche donne, un segnale chiaro che la parità di genere è ancora lontana dall’essere raggiunta e che il potere decisionale rimane per lo più appannaggio maschile.
Molestie sul lavoro
e penalizzazione della maternità
Se una donna fa carriera, è spesso oggetto di un linguaggio sessista o di molestie più o meno velate, di commenti sul suo aspetto fisico, o di insinuazioni sulla sua presunta aggressività se osa mostrare autorevolezza. I dati sono impietosi: milioni di donne hanno subito molestie sessuali sul luogo di lavoro nel corso della loro vita, un’esperienza che va dal commento volgare al ricatto vero e proprio. E poi c’è la child penalty, la penalizzazione sul lavoro che subisce una donna che diventa madre, che si traduce in mancati avanzamenti di carriera, discriminazioni nelle assunzioni e, nel peggiore dei casi, nel licenziamento. È un sistema che punisce la maternità, che considera l’atto di generare e crescere la prossima generazione come un ostacolo alla produttività aziendale, un ostacolo che ricade interamente sulle spalle femminili, negando di fatto la responsabilità e la capacità dei padri di essere partner alla pari nell’accudimento.
Dal controllo alla violenza estrema:
il femminicidio
Questa violenza sistemica, questa costante svalutazione, crea il brodo di coltura per il fenomeno più estremo: il femminicidio. I femminicidi non sono crimini d’impeto, ma l’atto finale di un lungo processo di controllo e sottomissione. Sono l’espressione ultima di un maschio che si sente proprietario della donna, un’eredità tossica del patriarcato che non accetta la libertà, l’autonomia, il “no” di colei che considera una sua estensione, un suo possesso.
Le scarpe rosse:
simbolo della lotta globale
È per questo che il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Assume un significato così potente, e con essa un simbolo forte e universale: le scarpette rosse.
Le scarpette rosse sono diventate in tutto il mondo il simbolo della lotta contro i femminicidi e la violenza sulle donne, un monito visivo, straziante e impossibile da ignorare. Il colore rosso non è casuale. E’ il colore del sangue versato, ma anche il colore della passione, della vitalità e della rabbia che si ribella.
L’idea nacque da un’installazione artistica dell’artista messicana Elina Chauvet intitolata Zapatos Rojos (Scarpe Rosse). Nel 2009, Chauvet espose a Ciudad Juárez, una città tristemente nota per i femmicidios (gli omicidi di donne in contesti di violenza di genere), una serie di scarpe da donna dipinte di rosso, disposte in spazi pubblici. Ogni paio di scarpe vuote rappresentava una donna scomparsa o uccisa. L’installazione era nata dal dolore personale dell’artista, la cui sorella era stata assassinata dal marito.
L’impatto emotivo dell’opera fu enorme. Le scarpe, un oggetto di uso quotidiano, legate alla femminilità, ma anche al viaggio e al movimento, si trasformavano in un’assenza, in un vuoto incolmabile. Da allora, l’installazione è stata replicata in innumerevoli città in tutto il mondo. Il simbolo si è diffuso e ogni paio di scarpe rosse lasciate in una piazza è un grido silenzioso. La testimonianza che una vita è stata recisa. E’ il promemoria che quelle scarpe non cammineranno più, ma che la lotta per la libertà e l’uguaglianza deve continuare a muoversi in loro vece.
25 novembre e le sorelle Mirabal
La data scelta dalle Nazioni Unite, commemora l’assassinio delle sorelle Mirabal – Patria, Minerva e María Teresa – avvenuto nel 1960 per ordine del dittatore della Repubblica Dominicana, Rafael Leónidas Trujillo. Erano attiviste, coraggiose oppositrici del regime. La loro morte brutale non fu solo un crimine politico, ma un atto di violenza di genere per eccellenza. La punizione estrema per donne che avevano osato sfidare il potere. Sono diventate, nel tempo, il simbolo della resistenza delle donne contro ogni forma di tirannia.
Agire oggi:
smantellare il patriarcato
La violenza di genere, in tutte le sue forme, non è solo una tragedia personale, ma una questione politica, sociale ed economica. È la manifestazione più tossica di un sistema che nega a tutti la possibilità di una società più equa, sana e prospera.
Non è sufficiente indignarsi di fronte alla notizia del femminicidio. Dobbiamo imparare a riconoscere e a smantellare le forme di terrorismo strutturale che preparano quel terreno. Dobbiamo esigere pari investimenti nella salute femminile e pretendere una parità salariale reale. Denunciare ogni forma di sessismo e ricollocare la responsabilità dell’accudimento e della casa come compito condiviso, non esclusivo della donna. Finché esisterà una società che tacitamente o esplicitamente svaluta il femminile, la violenza non si fermerà.
Conclusione
E allora, a noi che leggiamo, che assistiamo, che possiamo agire, non resta che chiederci, con urgenza e profonda onestà. Quali passi concreti siamo pronti a compiere oggi per smantellare il patriarcato e porre fine al terrorismo di genere? Scrivilo nei commenti.
Romina Godino
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